Dan Fante, figlio di John, scrittore come il padre. Bravissimo poeta.
Io sto lì con la mia copia di “The brotherhood of the grape” già
autografata da Capossela (che ne ha scritto l’introduzione) e mi domando
come potrebbe prenderla se gli chiedessi di autografarmi il libro del padre. Gli darà fastidio? Farà finta di nulla?
Non lo so, non riesco proprio a immaginare. Ma alla fine, manco c’ho
voglia di immaginarlo. Sono seduto sul binario arrugginito di una
stazione in disuso, circondato dall’educato brusio di una folla che con
il suo viavai sembra proprio farla rivivere, quella stazione. Solo che
stavolta non è l’affanno di orari da rispettare o di una meta da
raggiungere (una donna da rivedere? Un lavoro da cercare? Un sogno da
rincorrere?) che guida i presenti, ma il placido dinamismo di una serata
tra amici riunitisi nel bar che frequentavano un tempo e che ora appare
dimenticato ai più. Sconosciuto a quelli che non bevono vino ma
cocktails. Che giocano al videopoker e non alla briscola. Che hanno
tutta una vita davanti ma non il tempo di consumarla.
Perso in
questo Lete benigno, oblio dell’attualità, mi faccio prestare da John
Fante stesso il volto spavaldo e spaccone di uno dei suoi personaggi e
vado incontro a Dan. Sono sicuro che da qualche parte tra quelle pagine
che ho in mano, John mi ha sorriso.
“Mr. Fante?”
“Yes?”
“Can I ask a question?”
“Sure”
“I’ll be honored if you can sign me your father’s book. I know it’s
quite embarrassing, but having a Fante’s signature on it means so much
for me, so I thought…”
E lì lui con aria bonacciona e cordiale senza
neanche farmi finire mi allunga una manona e un nuovo “sure” così
piacevole che ti ci puoi accomodare sopra. Nel mentre scrive una delle
dediche più semplici e più belle che abbia mai letto (che adesso si
fronteggia con quella di Vinicio, quasi fossero due guasconi pronti a
scazzottarsi su un ring fatto di parole) parliamo un po’ del lavoro di
suo padre e quanto qui da noi è ancora amato non perché italo-americano,
ma perché grande scrittore. Il mio grande scrittore. Quello che mi ha
spalancato gli Anderson, i Faulkner, gli Steinbeck e poi Roth, Wolfe e
Franzen. E tutti quelli che scoprirò nel resto della mia vita e che per
adesso ignoro ancora.
Poi viene qualcuno dello staff a salvarlo
dalle chiacchiere sognanti nelle quali l’ho invischiato e ci salutiamo
con un’ultima stretta di mano. Lo vedo scomparire nel retro del palco
sul quale da lì a poco salirà per recitare le sue poesie. E quando
succede, è tutto un fluire di parole che fanno l’amore con le corde di
una chitarra pizzicata e poi sfumano lungo le linee parallele di due
binari che si perdono nell’oscurità, lanciati in un viaggio fino al
termine della notte.
Chissà se Nicola Fante, a sua volta padre di
John, l’ha mai percorsa questa tratta. Chissà se ha lanciato mozziconi
puzzolenti di sigaro tra queste rotaie mentre alle luci dell’alba andava
a spaccarsi la schiena in cantieri lontani.
E allora capisco che
questi binari arrugginiti senza inizio e senza fine sono tutto il tempo
del mondo. Le varie generazioni sono i vagoni che li percorrono e il
treno è il libro che le racconta.