Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 27 giugno 2014

Recensioni letterarie - "Aspettando Godot" di Samuel Beckett




"Arriverà, senza alcuna ombra di dubbio".
La risposta che diedi all'esame di storia del teatro, in merito all'arrivo o meno di Godot. E' assolutamente sicuro. Solo, precisai, arriverà domani. E il domani teatrale, ogni qual volta viene detta la battuta, si sposta di un giorno. Ed ecco il punto. Capire buona parte del dipanarsi di questa pseudo-vicenda scenica, sta nell'inserirsi nel meccanismo del tempo teatrale, che è un tempo del tutto al di fuori del concetto di linearità reale. E' un tempo relativo a se stesso, ed è il motivo per cui a teatro, nel vedere persone con abiti cinquecenteschi, non diamo nessun segno di stupore, perchè abbiamo assorbito (anzi, siamo stati assorbiti) il ruolo mistificatorio che lo spettacolo ha. Ecco, dunque, che la sospensione continua delle azioni e delle parole di Vladimiro ed Estragone appare del tutto sensata e, paradossalmente, niente di quello che succede in scena accade senza una ragione. Non stanno aspettando invano, perché Godot arriverà. Perfino l'albero sembra stare lì come incombente monito di qualcosa. E stiamo lì a sospettare che alla fine tutto quel vuoto, quella (apparente) insensatezza, non vuole essere metafora di qualcosa, ma di qualcuno: e quel qualcuno sono gli spettatori/lettori. Salvo poi capire che magari in verità Godot (o Dio, o il Bene, la Pace, la Felicità) sia già arrivato, ma non possiamo rendercene conto perchè a non esserci siamo noi.

mercoledì 18 giugno 2014

Guardatelo








Guardatelo, in copertina, questo anziano nonno di 2500 anni circa. Più di una volta l’Occidente, spesso commosso, ha accettato di farsi rappresentare da lui. Guardate questo guardiano che per secoli ci veglia dalla zona più alta della città in cui vive, Atene. Osservate questo reduce di guerra colpito, sfregiato dal tempo e dall’uomo, ferito ma mai a morte. Poggiato sulla nuda terra come un gigante stanco, ma mai sconfitto. Immerso nel sole che nutre gli olivi ritorti che stanno ai suoi piedi. Coperto solo dall’ombra del monte che fa da casa agli dei.
Questo antico titano è il Partenone, il tempio innalzato in onore della dea Atena Parthénos (che in greco significa “vergine”, perché la dea greca della saggezza era appunto una vergine guerriera) e quando fu costruito nel 480 a. C. era il tempio più grande e più ricco mai visto nella storia della Grecia. I migliori artisti ci lavorarono, primo tra i quali Fidia, che fu anche creatore della statua della dea, realizzata in oro e avorio e alta 12 metri, capolavoro all’interno di un capolavoro.
Ed eccolo lì oggi, inevitabilmente deturpato dai secoli ma non per questo meno bello. Sta sempre assiso sulla sua collina (l’Acropoli, ovvero la parte alta della città), e ci resterà per tanto altro tempo ancora. 
Spesso penso al fatto che un giorno io morirò, e anche i miei figli. E i figli dei miei figli. Ma lui resterà ancora lì e vedrà ancora tanta altra umanità scorrergli tra le gambe come formiche. E questo pensiero mi rende felice.
E adesso allargate lo sguardo. Spostatelo lungo i lati di questo punto focale e cercatene i contorni fino a trovare i confini della nazione in cui si trova, la Grecia.
Grecia, dov’è che l’avete sentita questa parola? Qualcuno ricorderà di quando ha fatto la sua conoscenza nei banchi di scuola, ma quasi tutti la assocerete ai tg nazionali, all’euro, alla bancarotta, alla crisi. Si, avete indovinato, è proprio la stessa nazione di cui stiamo parlando. Una nazione che negli ultimi tempi viene indicata come il fondo del barile, il gorgo entro il quale chi non rispetta gli standard economici dettati dall’Europa viene inevitabilmente ingoiato, così come Scilla e Cariddi ingoiano i marinai testimoniatici da Omero, dato che “mai nocchieri oltrepassaro illesi: poiché, quante apre disoneste bocche, tanti dal cavo legno uomini invola” (Odissea, XII, 129 e sgg.).
La foto che vedete in copertina risale al 2013, cioè ad appena un anno fa, quando l’onda lunga della crisi greca ancora riverberava la sua eco, spaventando e ammonendo gli eurocittadini locali delle varie nazioni come il lupo delle fiabe fa con i bambini. Guardandola, c’è solo una domanda che dovete porvi: perché un Paese straziato dalla crisi, dalla svalutazione monetaria, dalla disoccupazione, dalle rivolte sociali e dai feriti in piazza per le proteste dovrebbe, in pieno disordine, curare e restaurare edifici di centinaia di anni fa e che non verranno usati per ospitare persone?
La risposta ce la dà la Grecia stessa, o meglio, la sua lingua. Cos’è la “crisi”? In greco antico, la “crisi” è la “scelta”, la “decisione”. E’ un momento risolutivo, il culmine di un processo negativo che si prepara a essere il precursore di una decisione radicale. Quello che dalle nostre parti sarebbe il “tagliare la testa al toro”. La crisi è fondamentalmente una risposta, per quanto amara, alle estreme difficoltà.
La Grecia – o più precisamente una parte di essa – un anno fa ha deciso che per poter guardare all’estero aveva bisogno di guardare se stessa. La parte più intima e preziosa di se stessa. E ha scelto come tale parte più preziosa la sua storia, il suo passato, il suo retaggio culturale. Ecco perché in copertina campeggia la foto di questa Grecia che per curare il proprio futuro cura il suo passato. Ed ecco anche perché oggi il Museo Archeologico Nazionale di Atene è una meraviglia che farà invidia alle più moderne e dotate strutture museali del mondo. E non parliamo delle opere esposte, capolavori il cui valore è letteralmente impossibile stimare, ma proprio della struttura architettonica e soprattutto dell’efficienza del personale (il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, esempio a noi vicinissimo, avrebbe già tanto da imparare). Vedere per credere, non troverete al mondo una sistemazione museale e un dialogo così caldo e vivo tra contenuto e contenitore come il miracolo che avviene in quell’immenso edificio posto sotto lo sguardo del Partenone.
Ora, cari amici abitanti dell’Europa monetaria, conviene porsi una domanda: se la Grecia è – a quanto pare – una nazione allo sbando, cosa siamo noi che abbiamo ancora tanto da imparare dalla Grecia?

lunedì 16 giugno 2014

La Storia siamo noi - alla "scoperta" dell'archeologia (extended version)








“Archeologia” significa letteralmente “studio dell’arkè”, vale a dire del “principio”, “origine”. Tecnicamente, dunque, l’archeologia tenta di rispondere a una di quelle grandi domande esistenziali (“chi siamo?”, “da dove veniamo?”, “dove andiamo?”) che almeno una volta nella vita ognuno di noi si sarà posto.
Sotto questo aspetto, tale materia appare molto come un qualcosa in bilico tra due scibili culturali diversi: c’è un momento in cui ha un approccio del tutto scientifico, e cioè nel momento del rinvenimento e dello studio dell’oggetto antico (ci sarebbe da considerare anche il restauro dello stesso, ma quello è un qualcosa da lasciar fare ai colleghi restauratori, appunti, che sono molto più competenti nel settore – e talvolta anche in altro), ma in seguito c’è un momento in cui leggendo tutti i dati, sommando tutte le nozioni in possesso, l’archeologo sveste i suoi panni polverosi di Storia e indossa quelli del filosofo. Si, perché a un certo punto della sua giornata ogni archeologo davvero degno di questo nome si ritroverà faccia a faccia con la scoperta più sensazionale mai fatta dall’uomo, quella dell’uomo stesso.
E’ l’uomo che ha costruito le piramidi, ed è sempre un uomo quello che ha costruito le ziqqurat così come è stato un altro uomo ancora a costruire la muraglia cinese. Migliaia e migliaia di popoli, milioni di etnie e clan, miliardi di opere artistiche e architettoniche ramificati lungo tutta la superficie terrestre stanno lì da centinaia d’anni per poterci dire, alla fine, una cosa sola: che noi tutti siamo semplicemente uomini e in quanto tali saremo soggetti alle stesse regole che seguiamo da sempre: nasciamo e moriamo, mangiamo e ci riproduciamo. E ci innamoriamo, componiamo sinfonie, tradiamo, proviamo sofferenza, sfruttiamo, pensiamo, uccidiamo nostri simili davanti e dietro le loro spalle; costruiamo navi, edifici, acquedotti e poi pensiamo ad armi che siano in grado di distruggerli. Coltiviamo la terra, creiamo religioni, dipingiamo, odiamo, abbiamo paura, ridiamo, peschiamo, cacciamo, salutiamo il sole con gioia e di notte guardiamo le stelle. Questo facciamo, questo abbiamo sempre fatto.
Archeologia è dunque più di una scienza. E’ un modo di educare. Educazione alla civiltà, educazione all’uomo, educazione alla vita. Scoprire il nostro passato non è altro che rispettare quel detto sacrosanto che campeggiava nel tempio di Apollo a Delfi, “conosci te stesso”. Una lezione del genere è probabilmente la migliore che si possa imparare e che forse dovrebbe avere in qualche modo una sua forma e un suo spazio perfino nelle scuole.
In mancanza di meglio, esistono in questa nostra matta Italia alcune scuole che oltre a gite e visite guidate permettono alle varie classi di trascorrere una giornata sul campo di un vero sito archeologico aperto e gli studenti, sotto la guida di esperti del settore, effettuano un vero e proprio scavo. Un esempio in merito è quello di una classe del liceo classico “Vitruvio Pollione” di Formia (LT) , una città la cui storia passata è fortemente legata a quella di Roma antica – era un apprezzato luogo di villeggiatura dell’elite romana e soprattutto il luogo dove Cicerone trovò la morte durante un soggiorno nella sua villa privata.
La città – non grandissima – giustamente sfrutta la sua storia e questo suo legame con il passato ponendo particolare attenzione a un turismo di natura archeologica. Ne è prova il museo della città, piccolo ma molto interessante e soprattutto perfettamente funzionante, dotato di tutti i servizi, nonché di personale accogliente e disponibile. Durante l’estate, gli eventi culturali che legano il loro nome a quello della Storia abbondano. Perfino la gastronomia dice la sua, esistendo una pasticceria che tra i vari dolci ne produce uno seguendo una vera ricetta romana trascritta dallo stesso Cicerone in una delle sue lettere.
In questo scenario le scuole della città e in particolare il liceo classico ne approfittano per insegnare ai ragazzi cosa sia un vero scavo archeologico e mi piace pensare che forse gli studenti ricevono una lezione di civiltà – e rispetto per la stessa – che magari non colgono subito ma che un giorno, quando si ritroveranno a dover fare i conti con il passato (tanto tutti prima o poi ci troviamo a farli) si ricorderanno di quanto questo passato lo hanno cercato nella nuda terra, tra zolle e lombrichi, e con la segreta speranza di trovare una moneta antica, un coccio, un pezzo di pietra con sopra una scritta in latino. E magari i più fortunati che ricorderanno questa esperienza, riusciranno anche a cogliere la sottile metafora che ogni buon archeologo sente sussurrare nelle sue orecchie e gli dice che in fondo, scavando, cerchiamo semplicemente noi stessi, sepolti tra gli strati di terreno e con la segretezza speranza di tornare alla luce.
Lasciamo quindi che siano le parole di una studentessa che ha partecipato allo scavo (precisamente nel sito archeologico di Minturno) a raccontarci l’esperienza: Leggiamo il suo articolo e sentiamo cosa può dirci in merito.