Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

giovedì 29 maggio 2014

Mostra "LA GLORIA DEI VINTI" - ROMA, PALAZZO ALTEMPS - dal 18/04 al 7/09


Per la prima volta sono state riunite in una mostra temporanea tutte le statue dei Galati appartentenenti al cosiddetto "donario pergameno".


COS'E IL "DONARIO PERGAMENO"?
Un immenso gruppo statuario bronzeo realizzato a Pergamo sotto il re Attalo I (secondo altri, Attalo II) composto da (si ipotizza) circa 120 statue e rappresentante quattro grandi battaglie: contro i Giganti, contro le Amazzoni, contro i Persiani e contro i Galati. Tale donario originale è andato perduto, ma oggi si conserva il ricordo di alcune statue attraverso le copie romane in marmo di due gruppi simili (ma probabilmente ridotti di numero) che Pergamo stesso creò e diede in dono alla città di Atene e alla città di Delfi.


 

 CHI SONO I GALATI?
I Galati erano gli abitanti della Galazia, regione dell'antica Anatolia (oggi l'attuale Turchia) di origine celtica e provenienti dal nord Europa, dallo stesso ceppo culturale dal quale vennero i Galli stanziatisi nell'odierna Francia. Popolo di guerrieri fieri e valorosi, si scontrarono più volte con i Greci causando loro non pochi danni. Nell'arte, divennero i rappresentanti per antonomasia del "barbaro", caratterizzato da attributi rudi e primitivi, ma considerato anche temibile e pericoloso. 


I DONARI OGGI
Di tutte le statue create per il donario originale e per le copie, oggi abbiamo prova di sicura appartenenza al gruppo pergameno solo di 9 o 11 o 12 (il numero cambia a seconda delle ipotesi dei vari archeologi), ma comunque un numero decisamente limitato rispetto al gruppo originario. Quattro di esse si trovano nel museo archeologico nazionale di Napoli, altre copie ancora si trovano tra palazzo Altemps, i musei Capitolini, e poi ancora Venezia, Berlino, Londra, Praga e Stoccolma.

 

domenica 25 maggio 2014

Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale - recensione mostra


La mostra su Frida Kahlo ospitata alla Scuderie del Quirinale è attualmente il posto con la più alta concentrazione di femministe nel mondo. Detto ciò, regolatevi di conseguenza.
Difatti, le uniche cose da sapere sono che l'esposizione è allestita bene (difficile che le Scuderie dispongano un pessimo o mediocre allestimento), curata abbastanza a livello didascalico, e sufficientemente attenta a collegare la pittura dell’artista con quella dei suoi contemporanei e del suo tempo, in modo da poter avere un affresco sociale e culturale entro il quale inscrivere il suo lavoro.
Mi sarebbe piaciuto vedere un accento sul folklore artistico messicano in generale – in fondo Frida Kahlo è essenzialmente l’incontro di questo con il Surrealismo europeo – ma il massimo che si è potuto fare in proposito è stato piazzare le tele su pareti colorate a tinta unica. Il risultato che ne esce fuori è probabilmente lo stesso effetto che devono aver fatto i suoi lavori la prima volta che sono stati esposti in una mostra americana, cioè l’equivalente di far sedere una gitana in mezzo a imprenditori in doppiopetto. Le opere esposte – infine – non sono tantissime, ma riescono a rendere discretamente ciò che la pittrice era agli occhi di neofiti o mediamente informati (quest’ultima categoria è quella che principalmente riempie le sale dell’esposizione). Chi invece conosce l’artista da tempo e spera di poter annegare nel suo lavoro, temo resterà deluso, perché gli viene centellinato col contagocce.
Come dicevo, questo è quanto c’è da sapere. E’ sottointeso parlare della pulizia della sua pennellata, la nettezza di certe forme, l’eleganza del dolore raccontato nelle sue opere. Frida Kahlo è una pittrice che ha trasformato la sofferenza in arte – così come del resto hanno fatto migliaia di pittori – ma ovviamente ciò che la rende particolare rispetto ad altri è la delicata invadenza della sua personalità che riempie ogni millimetro di spazio delle sue tele. C’è poco da fare, la Kahlo ha fatto e farà scuola nella storia dell’arte anche se la sua è una di quelle lezioni pittoriche che sono felicemente aiutate dalla sua storia privata. Questo dato è da tenere presente perché ci porta all’affermazione che funge volutamente da incipit a questo articolo.
Visitando la mostra, viene da chiedersi se le persone (che a quanto pare sono accorse in massa decretando il successo dell’evento) siano lì per vedere una pittrice o stiano semplicemente incensando un mito, un fattore iconico, un’idea biografica e sociale. Un’immagine cigliuta che hanno visto su una spilla o un diario, insomma.
Propendo decisamente per la seconda, convinto per lo più dai cinguettii estasiati delle ragazze davanti ai suoi quadri che quasi superavano il sibilo acuto dell’allarme che segnalava un eccessivo avvicinarsi al quadro (suono quasi costante perché ovviamente nonostante siamo il Paese dell’arte, ancora dobbiamo capire che non possiamo spalmare la nostra faccia sopra un dipinto). Il punto è che a me dà fastidio quando una persona inizia a diventare un’icona (non per sua scelta, ovviamente) più per l’immagine che si porta dietro piuttosto che per ciò che ha creato. E’ come dare del nazista a Wagner o – ancora più idoneo al nostro caso – amare Caravaggio per la sua vita turbolenta ed estrema. Solo un perfetto idiota può inquadrare la caratura artistica di un Michelangelo Merisi entro i bordi di una vita all’insegna dell’ubriachezza, del gioco, delle donne e dei duelli.  
Tale operazione è semplicemente il risultato di una società che propina ai suoi membri una cultura fast food, epurata dagli orpelli più pesanti da digerire e immersa in un restyling degno della Apple, che esercita da anni la dittatura della linea estetica elegante ed essenziale dell’oggetto, altrimenti non vale la pena produrlo. Dunque perché perdersi in noiosi tecnicismi sugli sfumati o sulla reinvenzione del tratto artistico delle civiltà precolombiane quando poi possiamo vendere Frida Kahlo impacchettandola nella sua relazione tormentata con Diego Rivera e nel suo concedersi la compagnia sentimentale femminile? Perché parlare dell’esperienza surrealista che, plasmatasi in terra d’oltreoceano, perde i suoi connotati da introspettiva psicologica (ombrosa) tutta europea e va a conquistare i caldi e assolati simbolismi messicani quando ci troviamo di fronte a un succoso incidente che tormenterà la vita di questa ragazza la quale nonostante tutto resterà sempre libera, indipendente e comunista? Non siamo noi forse la terra dei martiri, delle persone che acquistano un valore solo dopo morte o solo quando la loro vita si lega all’infelicità? Ebbene, eccoci accontentati. Mi spiace, sig. Magritte, lo so che lei è fondamentalmente il padre del Surrealismo, ma fin quando non ci presenta un certificato di insana e debole costituzione, per lei niente mostre, niente spillette e niente borse di tela con la sua immagine sopra.
Sia ben chiaro che non sto denigrando la vita di Frida Kahlo. Tutt’altro, sto denigrando (e aspramente) la vita di chi si accosta alla sua pittura non riuscendo a vedere in essa altro che il prodotto di una ragazza sofferente ma innamorata, in una bizzarra e morbosa empatia degna di quella degli spettatori dei sideshow di fine ‘800 che andavano presso le carrozze degli zingari per poter ammirare donne barbute e uomini elefanti.
Non lasciatevi ingannare, non basta andare a una mostra per apprezzare davvero un artista. Bisogna saperla guardare con gli occhi (e la mente) giusti. E Frida Kahlo lo merita. 




venerdì 23 maggio 2014

L'ANFITEATRO DI CAPUA ARCAICA (oggi S. Maria Capua Vetere)

2000 e più anni fa, da questo anfiteatro lo schiavo Spartacus fece partire la rivolta che avrebbe fatto tremare l'impero di Roma. L'ultima classe sociale si ritrovò quindi a combattere contro il potere per la propria sopravvivenza, tanto che Karl Marx definì questo episodio il primo esempio di rivoluzione proletaria.

Oggi di tutta questa Storia non rimane che un gioiello architettonico (il secondo anfiteatro più grande d'Italia dopo quello Flavio di Roma) e forse un messaggio ancora vivo e dal quale - in un modo o nell'altro - dovremmo cercare di imparare qualcosa.