Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

martedì 28 gennaio 2014

Braccia rubate all'agricoltura

La Shoah. L'importanza della memoria. Ricordare per non ripetere gli errori (la lezione di Marc Bloch che aleggia dietro il senso dello Storia).
Le insegneranno queste cose ai giovani studenti?
Nel liceo classico di Formia "Vitruvio Pollione" a quanto pare no. Lo riporta un articolo a firma Antonia De Francesco, che forse avrà il vezzo di gonfiare un po' la gravità della questione, ma sicuramente evidenzia un problema serio e che personalmente condivido, vale a dire il ruolo delle istituzioni scolastiche nel processo di sensibilizzazione e di formazione di una coscienza civile.
Il fatto - stirato nella sua stigmatizzazione - è semplice da analizzare.
Gli studenti di oggi sono degli asini. Ci metto la mano sul fuoco perché ho a che fare con loro quotidianamente.
(Non rompete le scatole con la storia che non sono tutti così. E' NORMALE che non siano tutti così: ci saranno senza dubbio delle eccezioni. Ma stiamo delineando un quadro generale che si ritrova in studi sociologici, i quali per loro natura lavorano sul dato di maggioranza. Se non fosse così oggi non avremmo avvocaticchi idioti che, nel fare il concorso da magistati, sbagliano i congiuntivi).
Mandare questi asini a scuola dovrebbe avere lo scopo di corregere quelle (immani) storture generatesi attraverso anni e anni di lavaggio televisico del cervello, di (finto) benessere e culto della superficialità che la società italiana di oggi ci costringe a subire in grandi manciate. 
Ma l'inghippo nasce qui. La scuola, per una serie di ragioni pressoché infinita e che non è il caso di analizzare in questa sede, è un disastro. Spesso deficia dei mezzi per l'insegnamento, ma a volte deficia del senso stesso dell'insegnamento. Deficia - talvolta - dei valori da insegnare, perchè è lo Stato stesso a non fornire la giusta spinta per poterlo fare. 
C'è quindi un conflitto di interesse dove abbiamo da un lato il dovere che hanno le istituzioni nell'insegnare il valore della Storia (il valore della cultura in generale), dall'altro si nota però che le istituzioni stesse non hanno modi e forse interesse nel farlo.

Sia chiaro che un ragionamento del genere non può essere declinato contando sulle dita di una mano i professori che si impegnano - eroicamente - nel fare il loro sacrosanto lavoro, nè tantomeno è logico liquidare con un banale "purtroppo la situazione così è" (atteggiamento qualunquista e disfattista al quale proprio un certo tipo di Stato vuole che il cittadino giunga).

Da qualche parte, in questo paese idiota e malinconico che è l'Italia, c'è una costituzione. Una delle più belle mai scritte.

Da qualche parte, dietro questa costituzione, c'è l'uomo e il senso stesso della sua vita.


venerdì 24 gennaio 2014

Gli scheletri nell'armadillo





Io non so se a voi Zerocalcare piace o meno.
(Ma sono pure convinto che se non vi piace, Gesù una lacrimuccia la sta versando). 
Comunque, sta di fatto che se non lo conoscete, vi consiglio caldamente di scoprirlo, e se lo conoscete già, allora gioite pure con me.



Ah, e sappiate che "la profezia dell'armadillo" è una delle cose più belle e poetiche che abbia mai letto.

martedì 21 gennaio 2014

The annotated Renzi - "Veniamo noi con questa mia addirvi..."





Estratto dalla lettera di Renzi in risposta a Cuperlo (dimessosi dal PD):

"Siamo il Partito Democratico non solo nel nome, del resto. Un partito vivo, dinamico, plurale, appassionato. Un partito vero, non di plastica. Un partito dove si discute sul serio, non si fa finta. A viso aperto e non nei chiacchiericci dei corridoi. Guardandosi negli occhi e non affidandosi alle agenzie di stampa.
La stessa franchezza e lealtà mi ha portato a criticare - nel merito - il tuo intervento di ieri. In un Partito Democratico le critiche si fanno, come hai fatto tu, ma si possono anche ricevere. Mi spiace che ti sia sentito offeso a livello personale."

Versione annotata:

 "Siamo il Partito Democratico non solo nel nome(1), del resto. Un partito vivo(2), dinamico(3), plurale(4), appassionato(5). Un partito vero, non di plastica(6). Un partito dove si discute sul serio, non si fa finta(7). A viso aperto e non nei chiacchiericci dei corridoi(8). Guardandosi negli occhi e non affidandosi alle agenzie di stampa(9).
La stessa franchezza e lealtà mi ha portato a criticare - nel merito - il tuo intervento di ieri. In un Partito Democratico le critiche si fanno(10), come hai fatto tu, ma si possono anche ricevere. Mi spiace che ti sia sentito offeso a livello personale(11)."


1) Siete assolutamente solo un puro nome, essendo voi un partito senza storia e senza ideologia. Siete come la nebbia, avete un identificativo, ma non una consistenza. Anche se a essere pignoli, la nebbia a volte un senso ce l'ha. Voi no.

2) Siete più morti dei morti. Non avete mai fatto un cazzo, avete "tecnicamente" vinto le politiche del 2013 giusto perché Berlusconi era arrivato a un punto in cui non veniva creduto più neanche dai polli (e continueranno a non credergli, ma a breve gli italiani - che sono più idioti dei polli - lo rivoteranno di nuovo), e comunque il M5S vi ha messo il pepe al culo. 

3) Siete una massa informe di cose e persone che ha inglobato uomini di destra, sinistra, centro, cani, gatti, cavalli, zucche, rape, barbabietole, aspirapolveri e posaceneri. Una specie di blob ingombrante e immobile, incapace di fare una beata mazza. Oppure ce lo siamo già dimenticato Veltroni che in campagna elettorale del 2008 parlava di Berlusconi come "il principale esponente dello schieramento a noi avverso"? E pensare che eravate nati da un anno, quindi dovevate essere pure belli agguerriti. Invece combattavate contro un pregiudicato criminale usando i "quesiti con la Susi" verbali.

4) Non plurale, ma caotico. Cento teste, cento visioni politiche diverse. C'è sempre uno che pensa meglio di un altro. Questo è forse l'unico difettaccio che avete ereditato dalla sinistra.

5) Se "appassionato" è inteso nel senso etimologico del termine, e quindi "sofferente", allora si, vero. Non c'è giorno in terra in cui voi non soffriate di qualcosa, in una lenta e fastidiosamente lunga agonia.

6) Non di plastica, di merda.

7) "Si discute sul serio"? Torno a citarvi il Veltroni del punto 3?

8) Vero. Piuttosto che i corridoi preferisci parlarne a cena ad Arcore. Che, ricordiamo, tu frequentavi già nel 2010, quindi non mi venire a parlare di stategie politiche che hai scelto adesso che se no vengo lì e ti imbratto il giubbotto di pelle.

9) Tanto è vero che questo gradevolissimo epistolario tra te e Cuperlo mi è capitato per caso. E non sputate sulle agenzie stampa: se non fosse per loro, nessuno in Italia saprebbe della vostra esistenza, talmente siete inutili.

10) Le critiche politiche in genere sono critiche costruttive per capire dove si è sbagliato e cosa fare per migliorare. Qui stiamo parlando del segretario di un partito che trova un'ottima intesa con l'avversario storico, che tra le tante cose è un pregiudicato condannato, interdetto, colluso con la mafia, carico di processi in corso, corruttore,  spudorato bugiardo, magnaccia amorale, schifato dall'Europa, dal mondo e perfino dalle stesse iene del suo partito. Qui non ci devono essere critiche, qui ci devo essere io che vengo là a pestarti con una chiave serratubi di un metro e mezzo.

11) Non ho mai votato per il PD, non lo voterò mai e non ho mai votato per te. Ma sei autore di un'azione così bieca e lurida, il cui tanfo dà fastidio perfino a me. E vuoi che Cuperlo non si senta offeso fin nel midolo solo per avere un tale obbrobrio quale sei nel suo stesso partito? Ma stiamo scherzando o facciamo sul serio?


Due parole sulla forma e contenuto di queste poche righe: sembra nè più nè meno che un temino delle elementari, carico carico di belle paroline giuste e corrette. Ripetute quasi meccanicamente, senza vederne veramente il senso. Probabilmente l'autore ha lo stesso vizio degli studenti a cui do ripetizioni: scrive, ma non rilegge. O peggio, fa e non pensa. O peggio ancora, è Matteo Renzi.

lunedì 20 gennaio 2014

"Di sì felice innesto..." (perché non è giusto essere tristi)



Ricordo che ero piccolo.

Che non conoscevo ancora niente. Che le cose dovevo guardarle per capirle, e che c’era bisogno che qualcuno me le suggerisse.

Furono i miei genitori – ancora li ringrazio – a registrare su cassetta uno spettacolo trasmesso dalla RAI. E io dopo un po’ ho visto quella cassetta.

Vedevo questo signore dall’aria simpatica e accattivante (in seguito avrei scoperto che si chiamava Hermann Prey), e poi vedevo questo personaggio impressionante nella sua imponente e severa caratterizzazione – soprattutto per via della voce profonda (che avrei scoperto essere quello che in gergo si chiama appunto un “basso”), che da un lato mi impauriva e dall’altro affascinava.

Nella storia in cui erano inseriti, il primo si chiamava Figaro, l’altro Don Basilio. E poi c’erano Rosina, il conte d’Almaviva, Don Bartolo – che quando ero piccolo mi risultava antipatico e invece oggi mi ritrovo ad apprezzarlo più di Figaro stesso. E tutti cantavano, cantavano. E le mie orecchie si abituavano a quei suoni che un giorno me ne avrebbero dischiusi tanti altri.

E poi ricordo lui.

Quel signore con i capelli fluenti, tanto da ricordarmi De André, che stava lì al centro dei musicisti e che con aria rapita, allampanata e concentrata allo stesso tempo, guidava tutti i suoni con una bacchetta.

Quel signore, che riempiva i primi 10 minuti della storia in questione (durante quello che un giorno avrei scoperto essere l’ouverture di un’opera), era Claudio Abbado e dirigeva il “Barbiere di Siviglia” nell’edizione video del 1972, con la regia televisiva di Jean-Pierre Ponnelle e l’orchestra della Scala di Milano all’esecuzione.

Oggi Claudio Abbado è morto.

Però in questi giorni al San Carlo di Napoli andrà in scena il “Barbiere di Siviglia” diretto da Bruno Campanella e la regia di Filippo Crivelli, e se andrò a vederlo, sarò solo grazie a lui.

E in fondo, dietro questo spettacolo – dietro qualsiasi spettacolo lirico – io ci vedrò sempre inevitabilmente lui.

Claudio Abbado è morto, ma a tenere la bacchetta di tutte le orchestre che ho visto e vedrò, ci sarà sempre la sua mano.

Claudio Abbado è morto. Claudio Abbado è vivo. 



domenica 19 gennaio 2014

Napoli, a volte...

Mentre gli idioti guardano la partita, il mare in tempesta è tutto mio.





Articoli 2013 - operazione recupero (6)



28 / 7 / 2013

GIFFONI 2013, THE END

L’ultimo mio articolo su questa edizione del Giffoni Film Festival vorrei aprirlo – scusandomi con tutti, ma a breve spiegherò il perché – con quella che io ritengo la cosa meno giornalistica da fare, vale a dire esprimere spietatamente le mie opinioni senza presupporre un dialogo con il lettore, ma imponendogli come la penso e non attenendomi in pieno al mio lavoro. Faccio, se permettete, quello che fa il 90% delle persone e il 50% dei presunti giornalisti: sputo sentenze.
Per cui, in una maniera sintetica e crudele, scrivo qui cosa ne penso degli ospiti di questo Festival; lo faccio anche per scrollarmi di dosso un po’ di blando buonismo maturato lungo questa kermesse che proprio non c’entra niente con me.

Stefania Rocca: brava e bella. L’ho adorata in “Nirvana” di Salvatores.

Francesca Cavallin: niente di personale verso di lei, ma tranne “Boris”, “Romanzo criminale” e “Il mostro di Firenze”, la fiction italiana per me non esiste.

Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio: i soliti idioti. Nomen omen.

Paul Sorvino: era in “Rocketeer”, figata! Oh, no: era anche ne “L’onore e il rispetto”.

Mira Sorvino: come si può non amare Linda Ash in “Mighty Aphrodite” di Allen?

Elio, Faso, Cesareo: per quel che mi riguarda, le uniche persone degne di ricoprire rispettivamente la Presidenza della Repubblica, quella del Consiglio, e quella della Camera. A vita. E il patto con gli italiani deve essere che loro la smettono con X Factor e noi la smettiamo di scaricare gli album gratis dal web. P.S. Mangoni sindaco di tutte le città d’Italia.

Jessica Chastain: impeccabile nel ruolo di ospite del Giffoni Film Festival

Dario Argento: un bravo regista che ha smesso di fare film degni di questo nome nel 1993 dopo “Trauma”. Ma forse l’ospite più gentile, buono e disponibile del Festival. Escludendo astri come Saviano, si intende.

Mino Caprio: la voce di Peter Griffin, Boe Szyslak, Abe Simpson e Hubert Farnsworth. Cacchio volete di più?

Gabriele Caprio: bisogna aspettare che faccia qualcosa di più impegnativo per giudicarlo, se no adesso si rischia solo di scambiarlo per l’ex bambino della Kinder.

Luigi Di Maio: aperto, colloquiale, a tratti sognante. Un grillino con tutti i pregi e i difetti, insomma.

Alessandro Siani: un comico napoletano degli ultimi dieci anni, dunque una persona che impone la sua simpatia a furia di latrare e parlare con la zeppa in bocca.

Giovanni Allevi: presunzione, idiozia e mediocrità uniti in una faccia che invoca disperatamente di essere presa a schiaffi. Con un guanto di ferro di un’armatura medievale.

Logan Lerman: ragazzetto americano slavato. Però anche Di Caprio lo era ai tempi di “Titanic”: chissà, magari diventa pure lui quel dio di attore che è adesso.

Alexandra Daddario: la si vede e si pensa che se fosse stata la nostra D’Addario forse Berlusconi sarebbe stato quasi da giustificare. Comunque, visto che anche lei deve crescere, al massimo le si può augurare di diventare brava davvero, senza fare la fine di Kristen Stewart.

Filippo Nigro: bravo in quel che ha fatto e promettente per quel che farà. E poi ha recitato nel “RIS”, la fiction italiana la cui mediocrità porta inevitabilmente alla genialità più assoluta. Nel telefilm è riuscito a rimanere serio mentre recitava con il pupazzo Gnappo (alias Ugo Dighero), quindi è un signor attore.

Bandabardò: salve, siamo una band italiana che si ascolta nei licei classici e soprattutto nei parchi delle ville comunali mentre ti scoli una birretta e pensi che la vita, a seconda di quanti anni hai, sia “tranquilla”, “sciolta” o “scialla”.

Naya Rivera: commovente la sua riservatezza e un sobrio gusto nel non ostentarsi.

Max Gazzè: non lo seguo, ma non trovo perché parlarne male.

Guè Pequeno: inutile.

Fedez: inutile.

Ntò: inutile.

Salmo: inutile.

Ensi: devo proprio ripeterlo ancora?

Eddie Redmayne: very british. Mi piace.

Giancarlo Giannini: è Giancarlo Giannini. Punto.

Max Pezzali: l’unica cosa che mi fa pensare a lui con un sorriso è che ha introdotto (e successivamente cantato per intero) “Shpalman”. Non basta per riequilibrare un’intera carriera, ma aiuta.

Roberto Saviano: Carisma. Rispetto. Nobiltà. Peccato che lo leggano tanto gli intellettuali radical chic dell’ultima ora per fare bella figura nei caffè letterari.

Renzo Arbore: un eterno giovane, che non sempre è una cosa buona. Il suo cruccio più grande è quello di non essere abbastanza napoletano.

Sacha Baron Cohen: lo amo.

Alessandro Gassman: ha fatto un calendario. Ma anche un interessante “Riccardo III”, quest’anno.

Anna Maria Barbera: fossero stati Hanna e Barbera, sarebbe stato infinitamente meglio. Ma pure se fosse stata una tizia qualsiasi di nome Anna con un bottiglia di barbera in mano era meglio lo stesso.

Due parole, a conclusione, sul Festival in sé. E’ una versione in scala ridotta (ma non misera) di appuntamenti maggiori come Cannes, Venezia, o gli Oscar. Vale a dire, un qualcosa che è principalmente una vetrina espositiva che sta a metà fra il commerciale e il politico. Tuttavia funziona, fa promozione, attira persone in massa, produce introiti in un modo o nell’altro. E’ vero, si potrebbe pensare a progetti che hanno comunque respiri internazionali ma hanno un legame più forte con il cinema d’autore e la cultura come il Sundance o il Festival del cinema di Berlino, ma la via che si è scelta di intraprendere è questa (dicasi lo stesso per i succitati Oscar e Cannes), e a mio avviso è quella più adatta considerando la limitatezza della materia prima che servirebbe (la cultura) in un paese così ottuso e lento come l’Italia (abbiamo visto come la presenza di un Baron Cohen – che proprio commerciale non è – abbia quasi mandato in tilt l’opinione giornalistica: vogliamo ancora parlare di apertura mentale o preferiamo fare una bella autocritica?). Sempre ammesso che per cinema culturale non si intenda ancora proporre noiosi e stereotipati corto/mediometraggi in gelidi - crudi - bianco e nero, fatti da registi magrolini e barbuti che infilano un Bèla Tarr, Tarkovsky e Ozu in ogni mezza frase che dicono.

Detto ciò, concludo questo sfogo – non sarebbe possibile classificarlo altrimenti – per arrivare a toccare un tema che mi è stato a cuore in questi giorni, e cioè quello del senso del mio lavoro all’interno del Giffoni Film Festival. Ho avuto modo di confrontarmi con più realtà, principalmente con quella del pubblico, quella delle star, e infine con quella dei giornalisti. Queste tre realtà interagiscono tra di loro in un maniera assolutamente chimica e legante: l’una non può fare a meno dell’altra, altrimenti nessuna esisterebbe. Ognuna di queste realtà ha i suoi pregi e difetti, ma forse quella più rilevante rimane il pubblico, che è l’ultimo anello di questa catena, ma è anche il giudice che in qualche modo sentenzia sulle altre due e si trova a essere poi congiunzione dei tre anelli, diventando così ultimo ma primo allo stesso tempo.
Il pubblico resta vitale e in un certo senso immune da eventuali critiche negative, a meno che non sia esso stesso soggetto di notizia. Dovrebbe essere lo stesso anche per il giornalista, nel momento in cui si limita a fare il suo lavoro semplicemente stando sul posto e riportando una notizia, nel tentativo di informare chi non è presente sulla scena cosa sta succedendo. Ma penso piuttosto che prima di tutto un giornalista debba operare dei distinguo e saper contestualizzare ciò che sta scrivendo, riuscendo a discernere lo scopo che quella notizia può avere, la possibilità intrinseca di poter caricare il fatto in sé un’opinione o semplicemente può limitarsi a essere un resoconto di ciò che è avvenuto. Enzo Biagi, Indro Montanelli, Marco Travaglio e Massimo Fini sono solo alcuni dei miei giornalisti preferiti, ma loro oltre a essere di un livello infinitamente superiore al mio, sono anche legati per lo più a uno scenario in cui possono (e anzi viene loro chiesto) di esprimere un’opinione. Io, che sono alle basi delle basi di questo mestiere, mi sento per lo più un carpentiere del giornalismo, appartenendo a un livello talmente primordiale che il mio ruolo si limita a far si che i miei occhi siano gli occhi di tutte quelle persone che non osservano materialmente ciò che succede, ed è per questo che all’interno di questa testata sono state pubblicate informazioni riguardanti persone che a me personalmente non piacciono (ed è a sua volta per questo motivo che ho deciso di iniziare questo articolo con le spietate sentenze di cui sopra), ma che non ho né il diritto né il dovere di trascurare, perché il CittadinoNews – che ha avuto un personale successo all’interno di questa manifestazione – cerca di essere un organo informativo e divulgativo che non può ancora permettersi gli standard di riviste assolutamente superiori come “Limes” o “L’internazionale”.
Ed è quindi per questo che noi del CittadinoNews – o per lo meno io – non snobberemo, non gireremo le spalle alle persone che possono risultarci antipatiche (ma che hanno un proprio ruolo), non considereremo pedantemente, ottusamente e stupidamente un festival come quello di Giffoni una vetrina sporca e appannata evitando di trattarla, e soprattutto non ci schiereremo da una parte o l’altra di una notizia perché ci fa comodo a un uso e consumo personale e soprattutto locale. Siamo un progetto che sta crescendo, e come prima cosa ha intenzione di scollarsi di dosso innanzitutto etichette sociali e locali, che monitora ciò che ci accade intorno e nelle immediate vicinanze senza però mai dimenticare che abbiamo orizzonti lontani ai quali guardare (e la presenza di una rubrica dedicata all’Oriente nella nostra rivista lo testimonia, non a caso).
Noi del CittadinoNews siamo un gruppo di intelligenze che cerca di fare un percorso preciso in una sola precisa maniera: mettendo in gioco le qualità e le competenze che ognuno di noi possiede, senza sputare arroganza, senza rifiutare il confronto, senza ritenerci migliori di altri e senza mai dimenticare che l’ultimo orizzonte che possiamo osservare è quello del cielo.

sabato 18 gennaio 2014

Articoli 2013 - operazione recupero (5)



23 / 7 / 2013


GIFFONI, FINE PRIMO TEMPO



Avete presente la vecchia abitudine di quei adorabili cinema esistenti prima dell’avvento del Surround, delle pellicole in HD e del 3D? Quella di interrompere a metà un film con tanto di scritta e segnalante che il film sarebbe ripartito tra cinque minuti? Quella che – nostalgie a parte – è stata giustamente sostituita dalla proiezione ininterrotta, perché rimane comunque un po’ spiacevole bloccare la narrazione.

Bene, vi ricordate cosa succedeva in quell’occasione? Le luci si riaccendevano e il pubblico sembrava risvegliarsi da uno status più o meno ipnotico. La realtà rientrava timidamente di nuovo in circolo nei polmoni ma seppure gli occhi vedevano frotte di gente stiracchiarsi o approfittarne per andare in bagno, nella mente ronzava uno sciame di piccoli pensieri che fondamentalmente ti chiedevano: “e adesso… cosa sta per succedere?” riferendosi, ovviamente, alla pellicola che faticava a uscirsene dal cervello. Come è giusto che fosse, del resto.



Oggi impegni improrogabili mi hanno portato altrove (uno di questi è stato consegnare alcune copie del “CittadinoNews” di questo mese a Tullio Pironti, il proprietario di una delle più importanti case editrici di Napoli, dopo che lui espressamente lo ha richiesto). Per me questa pausa è la fioca luce giallognola dell’intervallo che si insinua nei bordi degli occhi al posto del buio della proiezione. Rotto l’ipnotismo narrativo in cui si viene immersi, i pochi minuti di realtà concedono la possibilità di riformulare quasi a freddo quanto visto finora.

E’ stato esattamente ciò che ho fatto durante la mia personale interruzione.



Preciso e premetto che questo non significa che il Giffoni Film Festival possa essere stato finora un gioco illusorio al quale mi sono prestato senza la dovuta necessità (sarei stato decisamente un mediocre giornalista, nel caso). Anzi, credo che l’opportunità di guardare il tutto con calma non abbia fatto altro che confermare quanto io ho da sempre sostenuto, e cioè l’accurato ingranaggio commerciale, politico e sociale che il Festival è (e a mio avviso deve essere), cercando di tenere chiaramente alti o quantomeno accettabili gli standard culturali. Di più, questa pausa mi ha forse permesso di fare ancora meglio il mio lavoro perché mi ha portato a riflettere con lucidità su quanto ho percepito finora, perché – come già detto altrove – ciò che ho intenzione di fare è soprattutto osservare il rifrangersi delle onde lunghe dell’evento lungo le coste circostanti a esso.

I miei occhi – che stavano lì, a differenza di quanti giudicano pur non essendo presenti – hanno visto innanzitutto una passerella di divi che nel meccanismo commerciale possono essere considerati di primo o secondo ordine, o, a seconda dei gusti, simpatici o antipatici. Poi hanno visto il pubblico pagante – ricordando De Gregori – che li desidera vedere, questi divi. Dopodiché hanno messo a fuoco gli incontri di tanti di questi ospiti con la Masterclass, un progetto educativo e lavorativo (a metà tra il sociale e il commerciale) che non sono per nulla da ignorare. Ancora, ho visto un lavoro di promozione teatrale e musicale fatto di spettacoli e concerti che purtroppo, come già spiegato altrove è talmente tentacolare che nonostante i nostri sforzi non riusciamo a riportare. Ho assistito inoltre a dibattiti interessanti – anche se riservati alla stampa – ma anche a incontri degli ospiti con le giurie trasmessi pubblicamente a beneficio di tutti. Ho dato uno sguardo a prodotti cinematografici interessanti. Ho notato una serrata campagna promozionale di prodotti tipici della zona, e dunque ho visto come attirare interesse mediatico su di un paese.

Ho visto tante di quelle cose che mi sembra di essere Roy Batty nel finale di “Blade runner”.



Poi ho visto anche le percezioni del Festival qui a Montecorvino Rovella ed è forse questo l’aspetto che mi affascina di più e che credo tratterò con più frequenza perché appartengo inevitabilmente a questo paese ed è dunque mio dovere osservarlo con attenzione. Ho riportato con estremo piacere come la voglia di essere partecipi e condividere questo momento di introiti e di catalizzazione culturale/commerciale (perché – ricordo a chi non è del mestiere – la cultura deve produrre profitti e nonostante l’ex ministro Tremonti intendesse fare una squallida battuta, con Dante ci dobbiamo veramente fare un panino, perché la cultura può e deve nutrire le persone sia intellettualmente che materialmente), così come ho rilevato con disappunto l’atteggiamento di sufficienza e snobismo odiosamente radical chic che si è usato verso gli aspetti più superficiali della manifestazione. Come se bastasse un Siani per offuscare un Saviano o un Giannini. Se c’è logica in questo, confesso di faticare a capirla.



E poi improvvisamente le luci in sala iniziano a smorzarsi e il pubblico sa che a breve lo spettacolo riprenderà il suo corso. Sta per inziare il secondo tempo: da domani sarò di nuovo a fare il mio lavoro nel miglior modo a me possibile, e mi viene da pensare che per un giorno, la mia assenza ha riguardato sempre e solo me, mentre il festival è andato avanti, ha continuato ad attrarre persone, ha fatto il suo dovere. Io non c’ero, e semplicemente l’ho perso, così come tutte quelle persone che non riescono a pensare di ricavarne qualcosa di buono in realtà non fanno altro che perdere possibilità, più che il festival in sé e per sé.

“Fuori tutto accade anche senza di noi”, dice Capossela in quello che considero uno dei suoi versi più ispirati. Se non fosse il sunto di un esistenzialismo tutto privato e personale del suo autore, potrebbe essere – in più di un’occasione – la scritta da apporre subito sotto al cartello che dà il benvenuto nel nostro paese.