Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 26 ottobre 2012

L'inchiostro più nero






Nel 1963 Hannah Arendt scrisse e pubblicò “La banalità del male”, un saggio che conteneva i resoconti del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Ma la verità è che la prosa (e la poesia) ha sempre trovato un profondo fascino nel male e, volendola mettere su un piano più tecnico (ma anche più semplicistico) possiamo far risalire la nascita stessa della letteratura occidentale con un atto di  violenza clamoroso quale la guerra di Troia, raccontata nell’Iliade.
Autori e opere che hanno fomentato questa attrattiva sono molteplici ma per farne un sunto, sono sicuramente due i massimi esponenti del genere. Il primo (inteso anche in senso cronologico) è Donatien Alphonse François de Sade (1749-1814), il cosiddetto “divin marchese” al quale si deve il termine “sadismo”. Vissuto durante gli anni turbolenti della Rivoluzione francese (nonché del periodo napoleonico), egli rappresenta la figura classica del libertino, spregiudicato ed eccessivo. L’eros è alla base dei suoi scritti ma esso si combina in maniera strettissima con la violenza come se l’uno fosse un mezzo per giungere all’altro, completandosi nell’obiettivo di un unico scopo che è quello del più insano ed egoistico piacere personale. Ma la sua non è una violenza che si limita a colpire le persone: è questo il senso profondo della retorica sadiana. Essa si espande e si scaglia con ferocia contro la natura, contro la morale, contro la religione, il creato e la vita tutta, come freddamente spiegato da un personaggio di una delle sue opere, “Le 120 giornate di Sodoma”: “… se solo potessi, userei il sole per bruciare d’un colpo tutta un’intera città…”. Parole che ci ricordano molto da vicino il sonetto di Cecco Angiolieri “S’i fosse foco arderei ‘l mondo”, ma che soprattutto ci rendono abbastanza chiaramente il senso di sovrumano odio verso tutto ciò che è l’esistenza altrui, un bisogno che viene identificato come “sadico” proprio perché ha un fine esclusivamente privato e soggettivo che mira al piacere dato nel distruggere gli altri. In Sade c’è quindi  una violenza meccanica, istintiva, che parte da un ragionamento freddo e spietato per poi culminare nell’animalesco, nella furia primitiva e irrazionale.
Diverso è il caso del secondo autore in questione, Isidore Lucien Ducasse (1846-1870) noto con lo pseudonimo di Lautréamont e autore de “I canti di Maldoror”. L’opera è densa di una violenza feroce ma tuttavia mista a un forte senso del grottesco. La sua è una crudeltà oscura, segreta, di quelle che si nascondono nelle tenebre e si fondono con le paure e gli incubi irrazionali che in parte richiamano le atmosfere cupe del romanzo gotico. Lo stile di Lautréamont è visionario, febbricitante, eccentrico. I suoi racconti, sotto forma di deliranti monologhi, scorrono come un fiume in piena e leggendoli quasi sembra di inciampare nel balbettio confuso dello psicopatico che con gli occhi spalancati scorge scenari immondi (in questo aspetto, è quasi un precursore di Lovecraft). La prosa è giocata principalmente in virtù di un’adorazione del Male inteso soprattutto come valore etico e religioso: Dio e la Natura tutta sono spesso le vittime dei suoi attacchi, in un sorta di grande rivalsa dell’essere umano nei confronti dell’Essere Supremo. Ma si badi bene: il tutto viene orchestrato in virtù di speculazioni filosofiche che mirano a condannare la società e i suoi costumi falsi moralisti. Quello dell’autore è dunque un grido di rifiuto che, negando il mondo reale perché considerato ipocrita, crea un universo oscuro dove il Male, incarnato in Satana in quanto opposto di Dio, domina concedendo agli uomini la libertà suprema, vale a dire la possibilità di regredire a bestie, rifiutando l’umanità e le regole etiche e sociali che la contraddistinguono.
Sono dunque, quelli di Sade e Lautréamont, due tipi diversi di letteratura del male. La prima, come abbiamo visto è tutta umana e patologica (non a caso, il sadismo – sebbene sia un termine improprio rispetto alla filosofia presente nelle opere di Sade – è tutt’oggi considerato una parafilia strettamente collegata con l’impulso sessuale, ed è infatti presente nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). La seconda investe il divino e tutto ciò che trascende nell’uomo: è immaginifica, terribile, inquietante. Queste due grandi direttive trovano poi le loro differenti declinazioni in tanti altri autori che hanno trattato il tema, di cui i maggiori sono sicuramente Edgar Allan Poe, Charles Baudelaire (suo grande estimatore) e gli altri due principali “poeti maledetti” Arthur Rimbaud e Paul Verlaine, il succitato Howard P. Lovecraft, William Blake, Jules Michelet, Jean Genet e Antonin Artaud. Come vedete, da sempre la letteratura è stata – e continuerà a essere – il campo ideale per la crescita dei fiori del male, preziosi gigli neri dell’inchiostro più (im)puro che la scrittura abbia mai avuto.

sabato 6 ottobre 2012

Io odio



Liberamente ispirato da “Hanno tutti ragione” di P. Sorrentino




“Affanculo questa civiltà, questa lealtà…”   
V. Capossela, Dov’è che siam rimasti a terra Nutless


Odio i buoni. E odio i cattivi. Odio il buonismo, l’approssimazione sociale, la noiosa tolleranza pastosa e stucchevole verso qualsiasi forma di vita e non. Odio la malignità, la cattiveria bassa e meschina, la calunnia viscida e l’invidia strisciante.

Odio i giovani perché non possiedono il valore dell’esperienza e odio i vecchi perché non hanno la genuina sconsideratezza dell’adolescenza. Odio l’esistenza griffata dei liceali e la marchiatura a fuoco ideologica degli universitari. Odio i professori, i bidelli, i segretari, i presidi e i rettori.

Non sopporto chi, parlando o scrivendo, cerca di darsi un tono utilizzando perifrasi o parole meno usate nel linguaggio comune. Così come non sopporto chi non riesce a usare il termine giusto all’interno di un discorso. Odio chi usa “problematiche” invece di “problemi”, quelli che usano la “k” invece del “ch” (e li odio ancora di più quando, credendo sia una giustificazione, dicono che lo fanno “per comodità” o “rapidità”), quelli che non azzeccano un congiuntivo neanche pagandoli oro, quelli che usano troppo facilmente il passato remoto, i feticisti dei diminutivi/vezzeggiativi quali “momentino”, “attimino”, “messaggino”, “giretto”.

Odio chi dice “va bene anche Twilight, purché si legga”, odio le persone che leggono così tanto da non trovare mai il tempo di ubriacarsi, odio chi crede che quella di Allevi sia musica classica, odio i cantanti che scrivono libri, odio chi legge recensioni per cercare di capire se l’opera possa piacergli, odio i cinepattoni, odio chi ascolta la musica indie solo per distinguersi dagli altri, odio chi ha bisogno di andare in India per ritrovare se stesso e in generale odio chi semplicemente avverte il bisogno di ritrovare se stesso. Odio chi sogna di andare in paesi lontani, odio Gauguin che con chissà quale coraggio si è lasciato la Parigi di fine Ottocento alle spalle per poi sbarcare a Tahiti e lo odio perché il poster di “Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?” è appeso in tutte le stanze degli studenti di lettere e filosofia assieme a quello di Bakunin. Odio l’ennui di Baudelaire, quelli che leggono troppa poesia e quelli che ne leggono poca. Quelli che guardano un’opera d’arte chiedendone fino all’osso cosa rappresenti.
Non sopporto l’idea di dover morire, ma solo perché significa che non potrò rivedere ancora una volta i film di Chaplin, né la cappella Sistina, così come non potrò più leggere Pasolini, né tantomeno sedermi da qualche parte nel mondo e guardare le persone passare. E non potrò più innamorarmi quel centinaio di volte al giorno.
Mi fa rabbia il silenzio, l’accettazione muta e colpevole, la falsa contemplazione. E sia maledetto il rumore e chi lo procura.
Odio le associazioni, i gruppi, le lotterie, le riunioni, i politici di destra, i politici di sinistra, le persone incapaci di stare in fila, i tormentati, i tristi, i nervosi, l’ipocrisia, l’incivile invadenza delle campane cristiane, la furbizia, gli impiegati allo sportello, gli hippies e gli yuppies, l’abbronzatura, facebook, le luci fluorescenti, Vasco Rossi, i sorrisi forzati, quelli che dicono “no, io parlo in faccia” credendo di riuscire a farlo davvero, gli artisti “impegnati”, le riviste per teenagers, i cantanti neomelodici, i Gormiti, quelli che amano il calcio e quelli che lo odiano, Ibiza, chi non sopporta la pioggia e chi non sopporta il caldo, i reality show, i talent show, i talk show, le discoteche, le persone che parlano al cinema, in teatro o nelle biblioteche, la Chiesa materialista e terrena, il fanatismo, l’innocenza, i prodotti cinesi scadenti, i centri sociali, i nostalgici del ’68, il servilismo, i mercanti d’arte, le celebrità che danno il buon esempio, gli onomastici, gli ombrellini nei cocktails, le fiction italiane, le infradito, i nerd, i cani che abbaiano di notte, le risate pro forma anche se la battuta è stupida, le questue, guardare a tutti i costi un film in anteprima, i prezzi alti dei libri,
Odio gli italiani, gli spagnoli, i francesi, gli inglesi, i tedeschi, russi, americani, arabi, indiani, cinesi, giapponesi e qualsiasi altra popolazione nel mondo. Tranne gli irlandesi.
E, soprattutto, odio chi è incapace di odiare.