Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 28 settembre 2012

Il silenzio assenzio di Degas





Siamo a Parigi, tra il 1875 e il 1876. Le strade esalano ancora i vapori malsani della poesia maledetta di Baudelaire, Rimbaud e Verlaine, il secolo volge al termine e l’arte si sta mettendo alle spalle il classicismo di Gericault, Ingrès e Delacroix. Pittori e scultori si stanno lentamente allontanando dalle anatomie perfette e dai temi epici e mitologici; la glorificazione non appartiene più a re e imperatori ma volge il suo sguardo alla borghesia nascente, ai poveri, agli ultimi della società. La presa di coscienza della condizione dell’essere umano (che dalle ceneri filosofiche di Schopehauer verrà sublimata da lì a poco nell’analisi scientifica di Freud e Jung) lancia un messaggio nuovo e invita l’uomo a guardarsi attorno, tastando la cruda materialità del reale.
C’è vita, oltre i saloni. Gli artisti escono fuori dagli atelier e dai palazzi del potere. Iniziano a sedersi per le strade, nei boschi en plein air, e soprattutto nei bar dove, agli occhi dei nuovi intellettuali, brulica e si agita l’umanità più vera, e dunque affascinante in quanto tale. I cafe parigini diventano un crogiuolo di emozioni, classi sociali, sfumature poetiche. C’è chi ne dipingerà le danze turbinanti e folli come Lautrec e chi scatterà l’istantanea di un momento malinconico e vuoto come fa Monet ne “il bar delle Folies-Bergére”. E c’è infine chi, come Edgar Degas, si sofferma sul triste e miserevole, riassumendo il tutto con un titolo emblematico: “l’assenzio”.
Per la cronaca, l’assenzio è un distillato ricavato dalle foglie dell’omonima pianta con una gradazione alcolica che va dai 45 ai 75 gradi, in genere di colore verde, e divenuto la bevanda simbolo sia degli alcolisti (per via della sua relativa economicità) sia degli artisti e intellettuali dell’epoca. Il pittore ha deciso di descriverne il suo consumo all’interno di un bar, provando a raccontare la storia (o le storie) dei suoi consumatori.
Innanzitutto notiamo come già nella sua struttura il quadro si presenta con un taglio nuovo e moderno, quasi fotografico. Infatti, si può vedere come oggetti e persone siano state sistemate senza un vero rilievo, né una costruzione. La donna, che apparentemente sembra essere il punto focale della tela, è in realtà parte di uno sfondo mentre l’ideale centro della scena (e dell’opera) sarebbe costituito dal vuoto che intercorre tra il tavolo (di cui vediamo solo uno spigolo) in primissimo piano e quegli altri dietro di esso. Vuoto che viene ulteriormente segnalato dalla mancanza visiva di un appoggio sul quale i tavoli stessi dovrebbero stare, dando così la sensazione di essere sospesi nel vuoto. A sottolineare la miseria di tutto ciò, è l’estrema semplicità degli oggetti presenti: una bottiglia (che parrebbe vuota) da un lato e due bicchieri da un altro.
Guardiamo ora l’inquadratura: essa ci appare tagliata, quasi come se fosse lo scatto improvviso di un reporter. Questo perché Degas, coerentemente con i dettami della nuova pittura, non ha bisogno di figure in posa, ma cattura e ripropone veri e propri spaccati di realtà, del tutto privi di qualsiasi accortezza scenica; la natura delle cose viene riconsegnata all’occhio dello spettatore così come è e non come i pittori (credendo di operare una mimesi) hanno tentato di fare finora. Questa nuova pittura dimentica il punto di fuga e scopre nel “taglio” della normale visione oculare il nuovo scorcio narrativo per rendere la verità oftalmica del mondo.
Si noti ora la tecnica: il dipinto viene incluso in quel grande e variegato magma pittorico che viene identificato come “impressionismo”, ma vediamo come l’abilità di Degas attraverso le sue pennellate, abbia opacizzato determinati dettagli (la gonna e i pantaloni dei due avventori, il vassoio, lo schienale e il muro) e contemporaneamente ha cercato di mettere a fuoco altri (il viso dei due, le scarpe della donna, il suo corpetto, il posacenere sul tavolo in primo piano) quasi come se la scena fosse vista attraverso una di quelle lenti da cannocchiale antiche e corrose del tempo e dall’usura, creando un effetto di vividi contrasti dove nitidezza e sfumature si alternano in un gioco di equilibri. Sembra quasi che il pittore abbia deciso di ritrarre l’immagine in quel luogo e in quel momento (lo spigolo del tavolo che riempie quasi l’intera base della tela è lì a sottolinearlo), in qualità di ulteriore astante che osserva il tutto attraverso la smerigliatura di un suo immaginario bicchiere.
La scena, così come il grande teatro, è una scena fatta di assenza. E’ vuota e quindi “aperta”. Aperta agli occhi e alle interpretazioni. C’è un silenzio che avvolge cose e persone che, appunto come le pause teatrali, comunica l’incomunicabile. E questa incomunicabilità altro non è che le infinite letture che possiamo dare ai personaggi, costruendogli una storia addosso. Chi è la donna? Una prostituta? Una moglie che ha appena litigato con il marito? Un’alcolista che per un secondo riesce a prendere coscienza della sua condizione prima che riprenda a bere? Qual è la sua storia, quale la sua tragedia? Ha appena perso qualcuno? O semplicemente quello sguardo spento le appartiene da tempo, da quando anni prima ha smesso di sorridere? E se si, perché lo ha fatto?
Le stesse domande potremmo rivolgerle all’uomo che le siede affianco, ma più di tutto, verrebbe da chiederci se egli stia lì per caso o se sia legato alla donna. Chissà se è un suo cliente o se lo è del bar. Oppure se è il marito con il quale ha litigato. Magari è abituato a tradirla e lei sta meditando su questo mentre lui già punta, concupiscente, un’altra donna.
Noi non lo sapremo mai, ma il senso del quadro non è scoprirne la storia, bensì, come dicevo, comunicare le possibili varianti che, essendone centomila, equivalgono a nessuna, così come Pirandello ci insegna.

martedì 11 settembre 2012

L'estate "attiva" dei paesi




In un precedente articolo mi compiacevo del lavoro svolto da quell’amabile manipolo brancaleonesco di cittadini che di sua spontanea volontà ha deciso di ripulire il più possibile la piazza teatro Seesen Harz di Montecorvino Rovella. Riprendendo l’apprezzamento che ho avuto modo di esprimere, non posso non menzionare chi, per primo, ha dato senso e vita a quella piazza. Mi riferisco al “laboratorio Creattivo”, un’istituzione locale culturale che da diversi anni organizza eventi di varia natura. A loro, ai ragazzi e ragazze che compongono istituzionalmente e logisticamente questa associazione, va il merito di essere stati i primi a far risuonare voci e suoni in quello spazio semiellittico.
            Ricordo bene, infatti, che la prima occasione in cui ho sentito quel piccolo teatro pubblico fare il suo dovere è stato nell’agosto del 2007, quando l’associazione ha dato il via ha una delle iniziative più interessanti che in genere spuntano come funghi in quel sottobosco culturale e locale che sono, per l’appunto, le estati dei paesi di provincia. Si trattava della prima edizione di “Musicattiva”, una rassegna musicale che si è proposta, di anno in anno, di portare in piazza la musica del buon cantautorato italiano (benedetti siano sempre coloro che hanno deciso di lasciare le strimpellate da Festivalbar chiuse nella loro scatola televisiva, ora non mi resta che sperare che si faccia l’ultimo decisivo salto di qualità optando per i Metallica, Burzum e i Dropkick Murphys, e siamo a posto).
            Hanno iniziato con Rino Gaetano per poi passare a Ivan Graziani, De André, Battisti (con mio sommo dispiacere in quell’occasione non hanno riempito il teatro di sabbia né acceso un fuoco simulando un falò sulla spiaggia) e infine l’anno scorso è stato il turno di Gaber (con il quale condivido la particolarità di avere le iniziali del nome e cognome uguali). Ora, quello che ho apprezzato di queste manifestazioni è che non si sono limitate ad essere delle semplici serate di cover musicali, ma sono state corredate da interviste, approfondimenti, presentazioni letterarie e performances attoriali, in più di un caso avendo invitato anche ospiti particolari, come ad esempio la moglie di Graziani o lo scrittore Michele Neri o ancora, come è stato per questa edizione, i cantanti Pier Cortese e Roberto Angelini.
            Ecco, se c’è una cosa che apprezzo davvero tanto in un evento culturale sono proprio le sue espressioni collaterali, che permettono di avere (e scoprire) nuovi punti di vista. Senza voler nulla togliere alla portata principale, è pur vero che la buona riuscita di un piatto è spesso suggerita dal contorno. Ho bene in mente, per esempio, una delle prime (mi sembra fosse la seconda o la terza, per l’esattezza) canzoni che sentii suonare in Seesen Harz, per mano e voce di Antonio Mainenti che, illustrando le origini della canzone d’autore italiana, eseguì il brano “dove vola l’avvoltoio”, da me mai ascoltato prima e subito gran bella scoperta. Questa è la prova che anche a quelli che, come me, canticchiano Guccini, Tenco (nonché il suo anagramma Conte) e Piero Ciampi mentre fanno la spesa può capitare di imparare qualcosa di nuovo, e – soprattutto – in maniera del tutto inaspettata.
            Come dicevo prima, il vero volto della tradizione culturale italiana sta risedendo sempre più nei borghi di provincia e piano piano abbandona le poltrone delle istituzioni culturali di Stato. Non a caso, sono uno di quelli che aspetta l’estate perché si porta appresso sagre del cinghiale e vernissages di artisti emergenti, feste della birra e genuino folclore perso tra vicoli acciottolati. L’estate per me è fatta di paesini (possibilmente in pendenza e un po’ angusti), campanili, bouganville, flauti e percussioni, readings letterari avvolti nel crepuscolo delle 20:00, macedonie di frutta, madonnari, fumo di carni alla brace come vapori paradisiaci e infernali allo stesso tempo, tamorre, bicchieri di plastica da 66 di vino bianco o rosso a un euro, esposizione di quadri e quadretti artistici, lucerne, citronella e balli di S. Vito. Scogli e birra per chiudere la serata.
            Sono queste – e queste rimarranno – le espressioni più vive della cultura nostrana e questa è la stagione durante la quale si possono cogliere al meglio. Il “laboratorio creattivo” è un’istituzione che ha dimostrato di essere capace di promuovere adeguatamente questi momenti di convivialità intellettuale e sociale. Lo ha dimostrato soprattutto quella volontà che un po’ ricorda Alfieri e un po’ Don Chisciotte e che li ha portati ad accollarsi la stragrande maggioranza delle spese per gli eventi, specie quelli di “Musicattiva”, che, sebbene patrocinati dal Comune, ricevono un rimborso minimo (seppure utile) consistente nel pagamento dei diritti SIAE. Eccettuato qualche sponsor, gradito e vitale (soprattutto perché significa che l’associazione ha dietro di sé un certo supporto sociale), i progetti sono interamente autofinanziati riuscendo ad essere sempre completamente gratuiti. Anche se spesso, come mi è stato riferito, questo ha rischiato di far arrestare tutto e sospendere il laboratorio. Ma, a differenza del governo italiano, i ragazzi hanno non solo pensato che bisognasse continuare ad investire nella cultura, ma che fosse addirittura il caso di rafforzare l’evento. Ed infatti quest’anno, come dicevo, la manifestazione ospita il duo Pier Cortese e Roberto Angelini i quali qualche tempo fa hanno collaborato insieme realizzando l’album “Discoverland”, che è, ai miei occhi e alle mie orecchie, un bel concept album mascherato da cover collection. E’ un album carico di spunti e soluzioni interessanti, che strizza un po’ l’occhio al noise e alla sperimentazione. Qualche linea di ambient, che si nota soprattutto negli arpeggi delle intro che sembrano scivolare dolcemente da un capo all’altro del brano, come se questi suoni venissero da Timbuctu per poi approdare a Chicago, passando per Genova. Il loro si presenta come un progetto maturo e ben studiato, pensato a tavolino da musicisti che sanno il fatto loro e poi lasciato crescere lungo le strade dei live e delle improvvisazioni, confermandosi così un buon ascolto ma sicuramente una gran bella opportunità potendolo sentire dal vivo in un concerto. Decisamente pollice in alto per entrambi.
            Ancora una volta, dunque, i piani del “laboratorio creattivo” puntano giustamente alla qualità che, sebbene sia più evidente in questi eventi musicali, non è mai mancata neanche nelle loro precedenti iniziative che spaziano dall’arte (“piazzarte” del 2006, la mostra collettiva “artefatta” del 2008 e “Terravecchia Artenuova” del 2010) fino alla sensibilizzazione verso il problema dei rifiuti (convegno “morire di rifiuti” del 2007 e il concorso “TRESC – Trasformo Rifiuti E Sono Contento”), senza dimenticare i cineforum, una piccola tradizione tutta sessantottina e da nouvelle vague che è sempre un piacere avere nei propri quartieri. La buona notizia è che tali eventi si sono svolti anche durante il letargo invernale che inevitabilmente affligge i paesi piccoli come Montecorvino Rovella, segno evidente che a muovere questi ragazzi c’è un entusiasmo costante e difficilmente etichettabile come marketing estivo, per cui tocca riconoscere ed apprezzare il loro lavoro, come faccio e come invito a fare, sperando che esso si possa protrarre il più possibile, mantenendo l’onestà intellettuale che li ha contraddistinti finora.
            E augurandoci di ascoltare la cover di Twilight of the thunder god degli Amon Amarth quanto prima.

domenica 9 settembre 2012

mercoledì 5 settembre 2012

Borgo antico: Storia di un evento




Mercoledì 8 agosto e giovedì 9 la frazione San Martino di Montecorvino Rovella ha ospitato l’evento “Borgo antico” al suo debutto di quest’anno.
Il progetto è nato per ridare valore e visibilità alla zona più antica della frazione, un lungo percorso rettilineo parallelo alla statale che presenta scorci suggestivi e architetture storiche, nascoste in maniera quasi pudica dal normale viavai di macchine che attraversano la zona. Ciò che si era proposto di fare con questa manifestazione è stato principalmente rivalutare la zona ma soprattutto creare un piccolo museo domestico a cielo aperto. E dunque sono stati aperti i portoni dei palazzi ed in ognuno di essi hanno trovato posto i più svariati tipi di collezioni e memorabilia del nostro recente passato, come ad esempio la sartoria, l’uncinetto, la creazione di oggetti in vimini, la realizzazione di seggiole. Accanto a queste esposizioni, l’organizzazione ha accostato eventi e intrattenimenti dislocati in diverse zone del percorso, talvolta in contemporanea, talvolta ad orari differenti. Tra i vari, esibizioni di danza, gruppi musicali, la recita di una commedia e perfino una sfilata, alla quale hanno preso parte modelle e modelli di San Martino, che in un’interpretazione più leggera della cosa sta quasi a ricordarci che a volte la bellezza (sia essa estetica quanto etica) non serve cercarla altrove, ma spesso si trova nel nostro stesso paese. Menzione d’onore, personale ma suppongo collettiva, la presenza di un telescopio proveniente dall’osservatorio astronomico che, complice la buona posizione del posto e la chiarezza del cielo, ha permesso a più di una persona – tra adulti e bambini – di osservare e perdersi nell’esplorazione delle stelle, sotto la guida illuminante di un esperto che spiegava e rispondeva piacevolmente alle curiosità di grandi e piccoli. Così come non posso evitare di riportare la mia sorpresa (personalmente del tutto positiva) nonché quella di molti, suppongo, nel vedere sfilare un ragazzo in abito da sposa e ricevendo per questo l’applauso sentito e particolare del pubblico, quasi a dimostrazione del fatto che un borgo può essere antico ma non per questo vetusto e chiuso mentalmente (per ulteriori approfondimenti sull’argomento, si leggano gli interessanti articoli alle pagg. 9 e 16).
Da non sottovalutare inoltre l’importanza e l’utilità della vetrina espositiva che l’evento in sé ha rappresentato, dato che ha felicemente ospitato associazioni e realtà locali come il Laboratorio Creattivo, il gruppo Found 404 e Sniffroom, il nascente social network “emotivo” presentato nel corso del Giffoni film festival. E accanto a loro, non sono mancati gli stand di prodotti gastronomici locali, così come non è mancata la promozione culturale dell’arte e artigianato. Disdicevole, invece, la mancanza (soprattutto di serietà) da parte di chi avrebbe dovuto tenere uno spettacolo ma che invece ha disdetto la sua partecipazione poche ore prima dell’inizio. Può capitare, si sa, ma è pur sempre brutto venire meno ad un impegno del genere con così poco preavviso.
Ero in questo evento vestendo anche i panni del giornalista in previsione dell’articolo che sto scrivendo adesso e andavo su e giù per quel chilometro circa registrando mentalmente cose, persone e dettagli. Poi, d’un tratto è successo un qualcosa che mi ha colpito molto. Con i miei amici, passavo davanti ad una tavola rusticamente imbandita, che non aveva uno scopo preciso: era il desco di una famiglia che abitava in uno dei palazzi e che si era spontaneamente offerta alle persone. Uno degli avventori di questa tavola ha detto testuali parole: “ragazzi, volete un po’ di vino? Non si paga, ve lo offriamo noi”.
Ecco, so che è facile spendere parole di stima davanti a qualcuno che vi porge del vino (e colgo l’occasione per ringraziare ancora il gentile gruppetto), ma è pur vero che di per sé ho apprezzato non solo il gesto, ma lo spirito stesso con cui veniva porto. Perché questo mi ha illuminato sul vero motivo che ha dato forza a questa manifestazione: la spontaneità e la partecipazione umana degli abitanti stessi della zona. In particolare, sottolineo la natura genuina della cosa. Non lo facevano dietro impegno preso, ma per dare  il loro contributo, per esternare l’aderenza a questo progetto di rivalutazione culturale e storica. E non a caso ci sovvengano in mente le parole di De Gregori che canta “… e poi la gente, perché è la gente che fa la Storia…”. E per “gente” si intenda il popolo, le persone di tutti i giorni, gli impiegati che timbrano il cartello e il contadino che si alza presto la mattina. E soprattutto, la voce alle spalle che ti offre il bicchiere di vino.
Ancora una volta, dunque, la vera storia di cosa siano state queste due giornate l’ha fatta la gente, con la loro cordialità, con l’ospitalità, con quella sana gentilezza delle persone attive e di buon cuore. Bastava chiedere, e loro parlavano, spiegavano, indicavano, sorridevano.
E’ mia opinione, ricavata soprattutto dai molti discorsi che ho fatto con gli abitanti della zona, che San Martino sia senza ombra dubbio un luogo da rivalutare e chiedo a chi di dovere di farlo soprattutto in virtù della necessaria conservazione e promozione del patrimonio culturale giuridicamente sancita, perché questa frazione si è rivelata davvero affascinante e interessante (e qui a parlare non è più il me giornalista, ma il me dottore in beni culturali). A maggior ragione, San Martino va recuperata e promossa in quanto si avverte che le persone stesse che la vivono sono desiderose di farlo. E dunque va sfruttato il loro entusiasmo (soprattutto quello giovanile) perché è genuino e benefico. Tuttavia è pur vero che fin quando verranno a mancare eventi del genere, anche per mancanza di un adeguato sostegno politico ed economico, non sarà possibile auspicarne il recupero perché laddove c’è voglia di fare è ugualmente facile trovare mancanza di iniziativa, spesso dovuta al continuo abbandono a se stessi.
Io credo che questi due giorni abbiano dimostrato molti teoremi, sia positivi che negativi. I primi hanno avuto riscontro nella partecipazione del pubblico e delle varie associazioni di Montecorvino che si sono confrontate innanzitutto con le persone e poi anche tra di loro. I secondi invece, erano costituti da chi non credeva utile – né possibile – che potesse avvenire tale confronto.
Ma ripensandoci, è bello che ci sia stata la possibilità di contraddire questi ultimi, dimostrando che la collaborazione e comunicazione tra le varie forze culturali presenti nel paese non solo è fattibile, ma addirittura desiderabile. Si ringrazia dunque chi non ha creduto nel progetto perché ha offerto – e offrirà – la forza di migliorarlo, dato che non c’è niente di “utopico” nel dialogo tra piccole ma importanti realtà locali.
Un ultimo ringraziamento, che qui pongo in una maniera strettamente personale, vada a quel Napoleone alto 1,85 (a differenza dell’originale) del cui amore e impegno per questo evento sono testimone, così come ho potuto constatare i suoi continui giri avanti e indietro per il borgo proprio come un generale che controlla le sue truppe, ascoltando ed elargendo consigli, registrando le pecche e apprezzando fino in fondo gli sforzi degli altri. Un Napoleone il cui spirito e forza d’animo gli impediranno – credo e spero – di conoscere una Waterloo.